sabato 24 maggio 2014

Frisco a Emilia Ruvida - 6 giugno 2014

Un vecchio poeta mi avvicina per attaccar discorso o per attaccarsi alla mia bottiglia di rosso trentino. Capelli grigi, irregolari quanto i suoi pensieri.
“L'arte non ha autore”, dice.
“Non ha nessuna importanza chi ha scritto una poesia. Puoi averla scritta tu, io, Catullo o Leopardi. Una poesia ha vita propria indipendentemente dall'autore.”
Dice che l’arte è come le calze autoreggenti. Non servono le gambe dell’artista per tenerla su. Si regge da sola, col nylon della tela.
Gli dico che sono tutte cazzate. Fuori dall'orbita dell'artista, fuori dal suo vissuto l'arte diventa una stella cadente che si spegne nel buio profondo.
Guardo la camicia del vecchio. Si è rovesciato addosso il vino trentino. Un fiore rosso sangue si espande sull'abito bianco. Una pugnalata al cuore del suo orgoglio.
Mi alzo e vado via.
Il testo critico di Francesco Ciancabilla deve partire da qui.
Perché le sue opere e la sua vita sono una cosa sola. I quadri di Frisco non possono prescindere dalla sua storia controversa, sofferta e avventurosa.
Quando ci siamo conosciuti non ho potuto fare a meno di chiedergli di Andy Warhol, Basquiat, Keith Haring.
Erano i primi anni '80 e Francesco ha fatto parte della corrente degli enfatisti, anticipando l'arrivo del graffitismo in Italia. Ha conosciuto i grandi nomi di New York, detonando dall'America come un proiettile che ha perforato le tele di Bologna.
La sua carne, la sua pelle. Le sue gambe hanno attraversato il Brasile, l'Europa, l'oriente.
Ogni passo ha calzato la tela dei suoi quadri, dove il jazz, i nomadi, le donne, gli esclusi compongono il firmamento di tante stelle cadenti che sarebbero bruciate nello spazio dimenticato, se il suo pennello non li avesse impressi nella carta geografica del proprio vissuto.
Scorci infuocati, scene dall'impatto violento eppure sfumato, come la scia di comete che attraverso la deflagrazione brutale disegnano delicate linee di luce.
Stelle cadenti sorrette dalla pelle di Frisco.
Altro che Decadentismo, ma "cadentismo". Una sigaretta, un paio di labbra, il sesso di una donna, un pugno - episodi precipitati come asteroidi sul corpo dell'artista e da esso immobilizzati in istantanee di sangue - buchi e ferite sulla carne, cicatrici in bianco e nero che Frisco porta con sé - una mappa di tatuaggi che non possono esulare dalla forma del suo corpo.
Non sono tele autoreggenti, ma tele cadenti. Il tratto ne ricalca l'impatto, la potenza di un momento sulla pelle sensibile del pittore.
Come un viveur nottambulo che si aggira mani in tasca aspettando che accada qualcosa, Francesco deve aver attraversato molte notti e molte strade, aspettando che le facce e le occasioni gli cascassero addosso per fermarle per sempre sulla tela – come se ogni istante di quei vagabondaggi insonni potesse racchiudere in sé un significato eterno.
Il colore aggressivo eppure acquoso, i soggetti violenti e vulnerabili insieme. Lividi di un vissuto che diventa più sopportabile ora che c'è la mano dell'artista ad accarezzarli.
Torno dal vecchio poeta che si sta asciugando la camicia con un fazzoletto.
"Inauguriamo una mostra il 6 giugno", ci tengo alla sua presenza.
E proprio lui, lui che ha teorizzato l'arte senza autore, domanda secco e curioso: "Una mostra di chi?"

Nicolò Gianelli